SINUX FELIX 
di Massimo Moretti

E questa valle cui gaio il verdeggiare
fra clivo e clivo solatìo si staglia,
soffice alcòva, eppur così selvaggia,
è pel mio borgo.

Quinci filar, che fûr d’opra e travaglio
a’ man nodose, e quindi torti ulivi
che si dileguan giù giù sino a carpire
l’onde al Benàco.

E quando il ciel d’opera bella tinto
d’aura gioisce e lambe trascinando
rosee corolle seco, e divulgando
dolce l’aroma,

sorride questa terra e più beata,
quale Catullo ancor l’immortalasse,
rifulge fra colline ed i cilestri
flutti spumosi.

Ma mentre quivi digradan lievi i colli
ed il pianoro immenso ed uniforme
s’estende e mille e mille pinti steli
seco racchiude,

laggiù, dove romìti fansi i tetti
e ‘l vento al vento ognor s’alterna e reca
a’ li melmosi scogli acerbo vezzo,
aspro è il mio borgo.

Aspro pendìo che giù da lunge grava
su scogli e rocce d’odoroso muschio
ammantate e d’aër quasi marino,
pingono l’onde,

co’ di riflessi le tinte aure solari:
la pia deserta proda che sassosa
mostra fra rami tinnuli d’abeti
tetti rossastri,

ricréasi silenziosa, qual d’oblìo
ancor còlta non fosse de l’antiche
vicende e d’ivi sparso ribollente
sangue latino…

E largo golfo, ove si perde il ciglio
fra scogli, arbusti, onde secréte e nembi,
a la lombarda terra mia incatena
l’insola curva.

Laggiù la veggo tra possente cerchia:
è tinta roccia che a la puntuta rada
sfugge tra flutti a colorir la volta
d’acque turchine,

d’un verde cupo anch’esso ed istorïato
da le fluenti chiome d’arbor: Flora,
che terra ognuna fa rifluir clemente,
domina anch’ivi.

E poco lunge s’adagia tra infiorati
campi di forgiata benacense terra
l’ameno vico che d’acri visïon
non ha sembiante,

ma solo vive di turchina pace.
Vollero te nomàr “Seno felice”,
dolce mio borgo, i padri miei, e udìlli
Dio dal suo regno